Nietzsche, il ribelle aristocratico

«Si può disquisire a lungo sugli autentici contorni del superuomo, sta di fatto che sono avvertiti come negativi tutti quei valori che hanno origine da un’idea di uguaglianza: morale del dovere, democrazia, socialismo. Sarà la sindrome del ribelle aristocratico…»

Editoriale del Corriere della sera dell’11 Gennaio, 2003

«Un filosofo che era piuttosto un poeta». Così Croce definiva Nietzsche nell’ultimo capitolo della Storia d’Europa (1932). Non era certo spregiativo, dalla penna di Croce, il termine «poeta». Ma la definizione restava riduttiva. Croce seguitava dicendo: «E portava nel cuore l’anelito alla purezza e alla grandezza». Ma subito additava il fenomeno che più ha contato, nel caso di Nietzsche: l’uso che altri hanno fatto del suo pensiero. «Fu anch’esso materialmente interpretato – così scrive -, e di lui si fece il profeta dell’attivismo».
Questi brevi e meditati cenni ponevano dunque già settant’anni or sono la questione che poi è divenuta determinante nell’interpretazione di questo filosofo: il cui libro forse più famoso, e tristemente famoso, La volontà di potenza , non è che un postumo «pastiche» fatto peraltro con pezzi tutti autentici, come ha ricordato qualche anno fa Maurizio Ferraris nell’eccellente sua Storia della volontà di potenza (1995).
Il tema dell’«uso», e della «vera natura» di un determinato pensatore, è tema scivoloso quanto storicamente delicato. È troppo facile dire: quello che nel XX secolo è stato fatto nel nome di Marx non ha a che fare col «vero» Marx; quello che è stato fatto in nome del Vangelo non ha nulla a che fare col concreto condursi della Chiesa per un paio di millenni, e così via. Invece ha a che fare, per quanto preziose siano tutte le filologie. Diceva Droysen che, di un fatto storico, fanno parte integrante le sue conseguenze, i suoi effetti. E lo stesso vale per il pensiero, nel caso di uomini che hanno influenzato l’agire di altri uomini in modo prolungato ed efficace.
Nei Quaderni , Gramsci scrive ad un certo punto che ogni volta che ci si imbatte in qualche «ammiratore di Nietzsche», è bene domandarsi se «le sue concezioni superumane, contro la morale convenzionale, eccetera, eccetera» derivino da una elaborazione di pensiero e siano perciò da porsi nella sfera dell’«alta cultura», o invece abbiano «origini più modeste, siano per esempio connesse con la letteratura d’appendice». E però subito si domanda: «E lo stesso Nietzsche non sarà stato per nulla influenzato dai romanzi francesi d’appendice? Occorre ricordare che tale letteratura, oggi degradata alle portinerie e ai sottoscala, è stata molto diffusa tra gli intellettuali, almeno fino al 1870». E passa poi ad un sardonico, insistente raffronto tra il superuomo di Nietzsche (il cui motto è quello di Zarathustra: se esistessero degli dei, come sopporterei io di non essere dio?) ed il conte di Montecristo.
Si può a lungo disquisire sugli autentici contorni del superuomo , e tentare di esorcizzare ogni ipotesi di filiazione pratica del superuomo: dall’eccitazione guglielmina all’assalto hitleriano al potere mondiale. Sta di fatto che, dal superuomo, sono avvertiti come valori negativi tutti quei valori che hanno origine da idee di uguaglianza (morale del dovere, democrazia, socialismo in pri mis ). Sarà la sindrome del «ribelle aristocratico», per adottare la formula che fa da sottotitolo al recentissimo Nietzsche di Domenico Losurdo (Bollati Boringhieri, pp. 1.168), ma forse il mélange di ribellismo e aristocratismo può produrre effetti davvero indesiderabili quando fuoriesce dal campo della poesia o dell’arte ed irrompe nella vita pratica.
Naturalmente in Nietzsche c’è tutto e il suo contrario, com’è di taluni artisti. «Chi non lo può rivendicare? – si chiedeva Kurt Tucholsky – Dimmi ciò di cui hai bisogno e ti troverò una citazione di Nietzsche. Per la Germania, e contro la Germania; per la pace e contro la pace; per la letteratura e contro la letteratura». È proprio con queste parole che si apre l’imponente saggio di Losurdo, che non senza ragione prende le mosse dall’attacco nietzscheano alla figura e al mito e al significato di Socrate, nonché dalla nietzscheana rivalutazione, in termini di modello «greco», dell’istituto della schiavitù. Opportuno porre in rilievo questi capisaldi, perché è difficile mettere tra parentesi questi macigni in omaggio ad una visione, un tempo in voga, di un Nietzsche né «di destra» né «di sinistra» ma semplicemente «ribelle». Ribelle forse, quantunque essenzialmente letterario; ma aristocratico, nel senso storico e classista del termine.
La discussione infinita sulla collocazione, a destra e a sinistra, di Friedrich Nietzsche non porta che su un binario morto. Mazzino Montanari, il filologo che più ha contribuito al restauro testuale del corpus nietzscheano, notò compiaciuto, nel febbraio 1977, che il movimento che in quei mesi investì l’Italia si richiamava a Nietzsche. Sulle mura dell’Università di Roma, da cui veniva scacciato Luciano Lama, campeggiava il detto dello Zarathustra : «Il deserto cresce, guai a chi nasconde deserti dentro di sé». Luciano Lama di destra e Zarathustra di sinistra? Ammesso che di sinistra fosse il «movimento» del ’77. Quando, pochi mesi dopo, le Brigate Rosse rapirono Moro, la Pravda definì i brigatisti «lupi mannari», epiteto che il giornale destinava spesso ai «nemici del popolo». Con un salto all’indietro di circa settant’anni, sfogliamo la Critica sociale di Turati, e vi troviamo (1909) un bel saggio di Arturo Salucci, tutto contro Sorel, da lui definito «il Zarathustra del proletariato». «Ammirare oggi Sorel – scriveva – è di moda, come cinque o sei anni fa era di moda ammirare e citare l’inevitabile Nietzsche (…). Nietzsche e Sorel vanno d’accordo nel predicare la virtù redentrice della violenza e la bellezza della crudeltà (il filosofo si compiaceva di veder affiorare la ferina crudeltà della “bestia bionda” persino nelle parole dell’epitafio di Pericle). E vi sono parecchi discepoli di notre maître Sorel che adottano addirittura il linguaggio nietzscheano: esaltano la guerra come fenomeno “soprannaturale” e vedono nello sciopero generale lo stato “dionisiaco” del proletariato!». (Non molti ricordano l’infelice uscita di Bertinotti quando proclamò la sua contentezza nell’approdare in aeroporto e trovarlo paralizzato dallo sciopero…). Su Panorama del 22 febbraio 1987 Adriano Sofri affermò (vivente ancora il Pci) che «c’è perfino un Nietzsche cossuttiano». Misteri di una filologia troppo corriva.
Ma proprio sul terreno filologico, è accaduto da ultimo qualcosa. Losurdo mette in luce, in appendice al suo libro, qualche indebito «addolcimento» delle uscite antisemite di Nietzsche dovuto proprio ai suoi filologissimi editori.
Ne è nata una difesa che sapeva alquanto della «difesa d’ufficio». Difesa inutile, visto che la tabe dell’antisemitismo covava dovunque, come caso particolarmente febbrile di un più generale e devastante razzismo, forse in Germania più che altrove, ma forse lì, solo in forme più scoperte ma non meno allarmanti che nelle «civilizzate democrazie» coeve francese e britannica, per non parlare degli Usa. Del resto non era il grande fustigatore delle fumisterie di Nietzsche sulla tragedia, il grande ellenista Wilamowitz, anche lui intento a denunciare, in una brutta pagina delle sue Memorie , la «stampa ebraica, che ha avvelenato le nostre fonti»? Ancora una volta la «stampa ebraica»: la quale – come ha osservato Losurdo – troppo sommariamente diviene «odierna stampa» nell’edizione di Nietzsche che, ben sappiamo, per mille buone ragioni fa testo, continua a far testo.

Luciano Canfora, Damiano Fedeli

Sul Capitale

Das Kapital, Kritik der politischen Oekonomie, di Karl Marx…contiene un’analisi veramente profonda, luminosa, scientifica e decisiva e, se posso esprimermi in tal via, un’esposizione spietata della formazione del capitale borghese e del sistematico e crudele sfruttamento che il capitale continua ad esercitare sul lavoro dei proletari. L’unico difetto di questo lavoro… positivista nella sua direzione, basato su un profondo studio dell’economia e che non ammette nessun’altra logica se non quella dei fatti – l’unico difetto, dicevo, è che è stato scritto, in parte, ma solo in parte, in uno stile eccessivamente metafisico e astratto… che rende difficile la sua spiegazione e la sua comprensione per la maggior parte dei lavoratori, e sono principalmente i lavoratori che nondimeno devono leggerlo. I borghesi non lo leggeranno mai o, se lo leggessero, loro non vorranno mai comprenderlo, e se anche lo dovessero capire essi non diranno mai niente a proposito e lo ignorerebbero; questo lavoro essendo nient’altro che una sentenza di morte, scientificamente motivata ed irrevocabile, non contro di essi in quanto individui, ma contro di essi come classe”.

Mikhail Alexandrovich Bakunin

ESTRATTI DAL MANIFESTO

“Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto sopra idee, sopra principii che siano stati inventati o scoperti da questo o quel rinnovatore del mondo. Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una lotta di classe che già esiste, di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. ” 

Karl Heinrich Marx, Friedrich Engels

ODIO GLI INDIFFERENTI

Odio gli indifferenti. Credo come Federico Hebbel che

‘vivere vuol dire essere partigiani’.

Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città.
Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.

L’indifferenza è il peso morto della storia. E’ la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall’impresa eroica.
L’indifferenza opera potentemente nella storia.

Opera passivamente, ma opera.

E’ la fatalità; e ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che si ribella all’intelligenza e la strozza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, il possibile bene che un atto eroico (di valore universale) può generare, non è tanto dovuto all’iniziativa dei pochi che operano, quanto all’indifferenza, all’assenteismo dei molti. Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. La fatalità che sembra dominare la storia non è altro appunto che apparenza illusoria di questa indifferenza, di questo assenteismo. Dei fatti maturano nell’ombra, poche mani, non sorvegliate da nessun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa. I destini di un’epoca sono manipolati a seconda delle visioni ristrette, degli scopi immediati, delle ambizioni e passioni personali di piccoli gruppi attivi, e la massa degli uomini ignora, perché non se ne preoccupa. Ma i fatti che hanno maturato vengono a sfociare; ma la tela tessuta nell’ombra arriva a compimento: e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto, del quale rimangono vittima tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. E questo ultimo si irrita, vorrebbe sottrarsi alle conseguenze, vorrebbe apparisse chiaro che egli non ha voluto, che egli non è responsabile.

Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi anch’io fatto il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, il mio consiglio, sarebbe successo ciò che è successo? Ma nessuno o pochi si fanno una colpa della loro indifferenza, del loro scetticismo, del non aver dato il loro braccio e la loro attività a quei gruppi di cittadini che, appunto per evitare quel tal male, combattevano, di procurare quel tal bene si proponevano.

I più di costoro, invece, ad avvenimenti compiuti, preferiscono parlare di fallimenti ideali, di programmi definitivamente crollati e di altre simili piacevolezze. Ricominciano così la loro assenza da ogni responsabilità. E non già che non vedano chiaro nelle cose, e che qualche volta non siano capaci di prospettare bellissime soluzioni dei problemi più urgenti, o di quelli che, pur richiedendo ampia preparazione e tempo, sono tuttavia altrettanto urgenti. Ma queste soluzioni rimangono bellissimamente infeconde, ma questo contributo alla vita collettiva non è animato da alcuna luce morale; è prodotto di curiosità intellettuale, non di pungente senso di una responsabilità storica che vuole tutti attivi nella vita, che non ammette agnosticismi e indifferenze di nessun genere.

Odio gli indifferenti anche per ciò che mi dà noia il loro piagnisteo di eterni innocenti. Domando conto ad ognuno di essi del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime.

Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze virili della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano nel sacrifizio; e colui che sta alla finestra, in agguato, voglia usufruire del poco bene che l’attività di pochi procura e sfoghi la sua delusione vituperando il sacrificato, lo svenato perché non è riuscito nel suo intento.
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.

Antonio Gramsci

11 febbraio, 1917

Die unbesiegliche Inschrift

La scritta invincibile

Al tempo della guerra mondiale
in una cella del carcere italiano di San Carlo
pieno di soldati arrestati, di ubriachi e di ladri,
un soldato socialista incise sul muro col lapis copiativo:
viva Lenin!

Su, in alto, nella cella semibuia, appena visibile, ma
scritto in maiuscole enormi.
Quando i secondini videro, mandarono un imbianchino con un secchio di calce
e quello, con un lungo pennello, imbiancò la scritta minacciosa.
Ma siccome, con la sua calce, aveva seguito soltanto i caratteri
ora c’è scritto nella cella, in bianco:
viva Lenin!

Soltanto un secondo imbianchino coprì il tutto con più largo pennello
sì che per lunghe ore non si vide più nulla. Ma al mattino,
quando la calce fu asciutta, ricomparve la scritta:
viva Lenin!

Allora i secondini mandarono contro la scritta un muratore armato di coltello.
E quello raschiò una lettera dopo l’altra, per un’ora buona.
E quand’ebbe finito, c’era nella cella, ormai senza colore
ma incisa a fondo nel muro, la scritta invincibile:
viva Lenin!

E ora levate il muro! Disse il soldato.”

Die unbesiegliche Inschrift

“Zur zeit des Weltkriegs
In einer Zelle des italienischen Gefängnisses San Carlo
Voll von verhafteten Soldaten Betrunkenen und Dieben
Kratze ein sozialistischer Soldat mit Kopierstift in die wand:
Hoch Lenin!
Ganz oben, in der halbdunklen Zelle, kaum sichtbar aber
Mit ungeheuren Buchstaben geschrieben
Als die Warter es sahen, schikten sie einen Maler mit einem Eimer Kalk
Und mit einem langstieligen Pinsel übertünchte er die drohende Inschrift.
Da er aber mit seinem Kalk nur die Schriftzüge nachfuhr
Stand oben in der Zelle nun in Kalk:
Hoch Lenin!
Erst ein zweiter Maler überstrich das Ganze mit breitem Pinsel
So dass es für Stunden weg war, aber gegen Morgen
Als der Kalk trocknete, trat darunter die Inschrift wieder hervor:
Hoch Lenin!
Da schickten die Warter einen Mauer mit einem Messer gegen die Inschrift vor
Und er kratzte Buchstabe für Buchstabe aus, eine Stunde lang
Und als er fertig war, stand oben in der Zelle, nun farblos
Aber Tief in die Mauer geritzt die unbesiegliche Inschrift:
Hoch Lenin!
Jetz entfernt die Mauer! sagte der Soldat.”

Bertolt Brecht

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